Monthly Archives: Dicembre 2023

ISRAELE – PALESTINA

ISRAELE – PALESTINA

“Ti senti un ragazzo o un adulto, Yusef?” “Mi sento responsabile”.

Così un bambino palestinese risponde a Cecilia Gentile, giornalista di Repubblica,

che racconta storie di infanzie perdute nella guerra nel suo libro “Bambini all’inferno”.

Di certo una frase ad effetto, ma che per alcuni lascia il tempo che trova.

“Mi sento responsabile”: una risposta che,in fin dei conti, non ci lascia così sorpresi; è quasi “normale” pensare che in un periodo di guerra anche i ragazzi debbano attivarsi per far fronte alla difficoltà. Ma è proprio questa normalità a doverci spiazzare: essa è il simbolo del fallimento dell’uomo, abituato fin dall’alba dei tempi alla violenza, che non ha mai considerato un vero problema; ricordiamoci che meno di 80 anni fa qua in Europa si combatteva uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’umanità, e che con il passare degli anni ancora altri conflitti (che forse non hanno interessato direttamente noi, ma poco importa) hanno riempito di orrore gli occhi del mondo intero. E ora non è diverso: in molte parti del mondo ancora si combatte, facendo soffrire sempre più persone e popoli. E qua in occidente? Qua in occidente ci “divertiamo” a discutere di chi ha ragione e di chi ha torto, trasformandoci all’improvviso in esperti di geopolitica, perché “le guerre in Medio-Oriente servono a questo”, come ho sentito dire. Ed è per questo che la responsabilità di Yusef non ci fa inorridire, non ci fa sbiancare, non ci fa vergognare ma anzi, ci rende quasi orgogliosi, orgogliosi di sapere che un ragazzino sta combattendo per la sua patria. Un ragazzo che ha diritto a un’infanzia come quella che abbiamo avuto noi, con la possibilità di andare a scuola senza rischiare ogni giorno che 20 soldati entrino per ucciderti; oppure con la possibilità di essere medicati, di non essere abbandonati feriti sul ciglio della strada; o senza il timore continuo che una bomba ti cada sulla testa; o infine senza vedere i propri genitori uccisi per qualche ragione che non conosciamo.

Sono questi i motivi della responsabilità di Yusef, gli stessi motivi per cui noi non potremo mai sapere cosa significa davvero essere responsabili a quell’età, quanto dolore e quanta sofferenza questo comporta; la risposta di Yusef non è altro che il simbolo della nostra società, che ancora è afflitta dalla profonda piaga della violenza e che lo sarà per sempre fino a quando ci sarà qualcuno pronto a giustificare certe atrocità.

Dopo tutto questo discorso mi rimane però una domanda: c’è qualcosa che possiamo fare per evitare di essere ancora tormentati da questa crudeltà, che sembra insita nell’uomo? La risposta che ho trovato (che non si presenta come rimedio assoluto, ma solo come sua parte) è la seguente: oltre a riflettere in continuazione sulle cause delle violenze che avvengono in questo momento, abbastanza semplici da trovare, riflettiamo su come la violenza sia parte dell’indole dell’uomo, su come ne costituisca una parte dell’animo e su come, seppur spesso inconsciamente, lo influenzi. Riflettiamo su come noi stessi ci lasciamo trasportare da questo nostro istinto, e su come possiamo arginarlo e gestirlo (poiché eliminarlo è purtroppo impossibile). Riflettiamo anche sulla nostra fortuna, quella di essere nati in un posto pacifico, in cui ci sono riconosciuti i diritti fondamentali; e non lasciamoci prendere dai piccoli problemi della vita, ingigantendoli all’inverosimile come spesso vedo fare: non perché sarebbe ingiusto nei confronti di chi sta soffrendo in altri luoghi del mondo, ma perché lo sarebbe nei confronti di noi stessi e della nostra dignità, noi che abbiamo la possibilità di vivere davvero le nostre vite (chi più e chi meno, sia chiaro) e che invece ci riduciamo a lamentarci sempre di tutto, perdendo di vista i nostri obiettivi.

La mia speranza è che facendo ciò ci potrà davvero essere un futuro in cui il prossimo Yusef dovrà sentirsi responsabile solo di riuscire a vivere a pieno la sua infanzia, senza soffrire per colpa di cose che non sa spiegarsi e di persone che non conosce.

Bambino gioca con un palloncino sopra le rovine di un palazzo

Bambina salta la corda davanti a 2 edifici edifici bombardati

Bambino guarda spaventato la canna del fucile di un soldato

Articolo scritto in collaborazione con commissione arte che ha selezionato le foto presenti.
Alessandro Morandi 4A

Un mito nella moda: Jane Birkin

Un mito nella moda: Jane Birkin

Jane Birkin era una cantante, attrice e icona di stile ed eleganza. Di origine britannica, nacque nel ‘46 a Londra. L’approccio con il mondo dello spettacolo avvenne quando la giovane Jane scoprì di nutrire un forte interesse per il teatro, infatti a 17 anni decise di intraprendere questo percorso. Iniziò quindi a cantare in alcuni musical, incitata da John Barry, noto compositore inglese che 2 anni dopo divenne suo marito.

Il debutto cinematografico di Jane Birkin avvenne con la pellicola Non tutti ce l’hanno, sotto la direzione di Richard Lester, ma è con il film successivo, Blow-Up, diretto da Michelangelo Antonioni, che diventò un personaggio molto discusso nel panorama inglese, a causa di una scena in topless. La cantante decise così di abbandonare l’Inghilterra e andare a vivere in Francia. Qui, nel ‘68, durante le riprese del film Slogan, incontrò il musicista Serge Gainsbourg. Un colpo di fulmine per entrambi: un amore che durò fino al ‘80. Poco dopo il loro incontro, la coppia ottenne grande popolarità grazie al brano Je t’aime…moi non plus. Tale canzone, ai quei tempi, fu oggetto di scandalo per la presenza dei gemiti della Birkin, non passò inoltre inosservato il testo dal carattere esplicito. La successiva storia d’amore, quella con il regista francese Jacques Doillon, spinse la Birkin ad abbandonare la sua immagine di ragazza sexy e sbarazzina. Con l’aiuto di Doillon, Birkin dimostrò di essere in grado di recitare anche ruoli più complessi.

Successivamente, insieme alla sua terzogenita, Jane lanciò una linea di abbigliamento per la casa di moda “La Redoute“. Nel 1983, su un volo Air France Parigi-Londra, Jean-Louis Dumas, a capo di Hermès, si ritrovò ad avere come vicina di posto Jane. Tra loro, subito, iniziò una conversazione vivace, fatta di scambi di idee e intuizioni. Fino a che l’agenda di Jane non le cadde dalle mani, spargendo ovunque gli appunti: «Nessuna agenda e nessuna borsa riescono a contenere tutti i miei fogli» dice lei. E Jean le promette di creare apposta per lei una borsa che sia capiente e allo stesso tempo elegante. Nel ‘84 nacque così un mito della moda, la leggendaria Birkin, consacrato dalla sua comparsa al braccio delle donne più ammirate della fine del Novecento e dall’alta desiderabilità data dall’essere sì raggiungibile, ma a patto di essere disposte ad accettare liste di attesa lunghissime. Nel ‘87 Birkin scelse di allontanarsi dal mondo del cinema per dedicarsi esclusivamente al teatro.

Il 16 luglio 2023, a 76 anni,  Jane Birkin è stata trovata senza vita nella sua casa a Parigi. Le cause della sua morte sono ancora ignote. Sappiamo solo che nel 2002 aveva vinto la battaglia contro la leucemia e che nel 2021 aveva avuto un lieve ictus. Ci sono mille motivi, più o meno razionali, per adorare Jane Birkin: lanciandosi nella mischia senza mai abbandonare una sorta di garbata provocazione, ha imposto una visione singolare e personalissima della femminilità, non è mai apparsa schiava delle tendenze. Al contrario, è affascinante il modo in cui ha influenzato la moda fin dagli anni Sessanta, con quel suo «effortless chic» che va in direzione opposta ai codici tradizionali e le ha dato un vantaggio di mezzo secolo su tutti gli altri. Jane Birkin era tutto tranne che una musa professionista, ma è diventata un’icona di stile quasi suo malgrado. Jane ha definito il significato di bohemien cool e, soprattutto, ha incarnato il concetto di fiducia in sé e di libertà, qualità che si riflettevano nelle sue scelte di abbigliamento, anche quando indossava molto poco. Falsa ingenua ma autentica lolita (anche se era già madre), ha imposto il cestino di vimini anche sulla scalinata di Cannes, le frange, i corti, le trasparenze, il denim, la maglietta o il maglione abbondante che lasciava scoperta la spalla e la voce acuta sussurrante, sempre sul punto di incrinarsi. La sicurezza fa parte del suo stile. Non si separava mai dal suo cesto di vimini portoghese, acquistato in un mercato londinese, non importava se le venisse vietato l’ingresso in locali chic come il Maxim’s. 

Ginevra Sansoni 4C

Mariasole Marro 5B

Giulia Klizia Bracco 4C