“Ti senti un ragazzo o un adulto, Yusef?” “Mi sento responsabile”.
Così un bambino palestinese risponde a Cecilia Gentile, giornalista di Repubblica,
che racconta storie di infanzie perdute nella guerra nel suo libro “Bambini all’inferno”.
Di certo una frase ad effetto, ma che per alcuni lascia il tempo che trova.
“Mi sento responsabile”: una risposta che,in fin dei conti, non ci lascia così sorpresi; è quasi “normale” pensare che in un periodo di guerra anche i ragazzi debbano attivarsi per far fronte alla difficoltà. Ma è proprio questa normalità a doverci spiazzare: essa è il simbolo del fallimento dell’uomo, abituato fin dall’alba dei tempi alla violenza, che non ha mai considerato un vero problema; ricordiamoci che meno di 80 anni fa qua in Europa si combatteva uno dei conflitti più sanguinosi della storia dell’umanità, e che con il passare degli anni ancora altri conflitti (che forse non hanno interessato direttamente noi, ma poco importa) hanno riempito di orrore gli occhi del mondo intero. E ora non è diverso: in molte parti del mondo ancora si combatte, facendo soffrire sempre più persone e popoli. E qua in occidente? Qua in occidente ci “divertiamo” a discutere di chi ha ragione e di chi ha torto, trasformandoci all’improvviso in esperti di geopolitica, perché “le guerre in Medio-Oriente servono a questo”, come ho sentito dire. Ed è per questo che la responsabilità di Yusef non ci fa inorridire, non ci fa sbiancare, non ci fa vergognare ma anzi, ci rende quasi orgogliosi, orgogliosi di sapere che un ragazzino sta combattendo per la sua patria. Un ragazzo che ha diritto a un’infanzia come quella che abbiamo avuto noi, con la possibilità di andare a scuola senza rischiare ogni giorno che 20 soldati entrino per ucciderti; oppure con la possibilità di essere medicati, di non essere abbandonati feriti sul ciglio della strada; o senza il timore continuo che una bomba ti cada sulla testa; o infine senza vedere i propri genitori uccisi per qualche ragione che non conosciamo.
Sono questi i motivi della responsabilità di Yusef, gli stessi motivi per cui noi non potremo mai sapere cosa significa davvero essere responsabili a quell’età, quanto dolore e quanta sofferenza questo comporta; la risposta di Yusef non è altro che il simbolo della nostra società, che ancora è afflitta dalla profonda piaga della violenza e che lo sarà per sempre fino a quando ci sarà qualcuno pronto a giustificare certe atrocità.
Dopo tutto questo discorso mi rimane però una domanda: c’è qualcosa che possiamo fare per evitare di essere ancora tormentati da questa crudeltà, che sembra insita nell’uomo? La risposta che ho trovato (che non si presenta come rimedio assoluto, ma solo come sua parte) è la seguente: oltre a riflettere in continuazione sulle cause delle violenze che avvengono in questo momento, abbastanza semplici da trovare, riflettiamo su come la violenza sia parte dell’indole dell’uomo, su come ne costituisca una parte dell’animo e su come, seppur spesso inconsciamente, lo influenzi. Riflettiamo su come noi stessi ci lasciamo trasportare da questo nostro istinto, e su come possiamo arginarlo e gestirlo (poiché eliminarlo è purtroppo impossibile). Riflettiamo anche sulla nostra fortuna, quella di essere nati in un posto pacifico, in cui ci sono riconosciuti i diritti fondamentali; e non lasciamoci prendere dai piccoli problemi della vita, ingigantendoli all’inverosimile come spesso vedo fare: non perché sarebbe ingiusto nei confronti di chi sta soffrendo in altri luoghi del mondo, ma perché lo sarebbe nei confronti di noi stessi e della nostra dignità, noi che abbiamo la possibilità di vivere davvero le nostre vite (chi più e chi meno, sia chiaro) e che invece ci riduciamo a lamentarci sempre di tutto, perdendo di vista i nostri obiettivi.
La mia speranza è che facendo ciò ci potrà davvero essere un futuro in cui il prossimo Yusef dovrà sentirsi responsabile solo di riuscire a vivere a pieno la sua infanzia, senza soffrire per colpa di cose che non sa spiegarsi e di persone che non conosce.
Bambino gioca con un palloncino sopra le rovine di un palazzo
Bambina salta la corda davanti a 2 edifici edifici bombardati
Bambino guarda spaventato la canna del fucile di un soldato
Articolo scritto in collaborazione con commissione arte che ha selezionato le foto presenti.
Alessandro Morandi 4A