Il gap generazionale è antico quanto l’uomo. Anche se già Aristotele si era reso conto che “i vecchi sono di natura opposta a quella dei giovani”, è nella modernità che il divario diventa conflitto. Dall’Europa a oltreoceano per tutto il Novecento (con sospensioni dello scontro durante le guerre mondiali e un suo attenuarsi a partire dalla generazione MTV negli anni Ottanta) si accendono e si spengono a fasi alterne focolai di cambiamento che irradiano novità e si influenzano reciprocamente. Il movimento Flower Power, ad esempio, ha un suo poco noto antecedente in un altro movimento, quello dei Wandervögel (Uccelli Migratori) liceali tedeschi che tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento manifestavano la ricerca di un rinnovato contatto con la natura e con la propria fisicità; le foto che documentano le loro gite nei boschi li mostrano nudi e accompagnati dalle chitarre con cui amavano eseguire canti popolari (il loro attaccamento alla terra d’origine sarà tristemente sfruttato dal regime nazista per integrare i Wandervögel nella Gioventù Hitleriana). Negli anni Sessanta ritroviamo gli Uccelli Migratori nella comunità hippy di San Francisco, con qualche decennio e molti cambiamenti alle spalle. Nel frattempo si sono succedute diverse generazioni: la Lost generation degli anni Venti, di Hemingway e di Fitzgerald, dei locali jazz, delle “maschiette” con i capelli corti, la gonna accorciata alle ginocchia e poco timore delle restrizioni sessuali imposte dai genitori borghesi; la Beat generation degli anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta, l’età di James Dean, dei viaggi “on the road” di Jack Kerouac e Allen Ginsberg, della sperimentazione dell’assunzione di marijuana e anfetamine, di ragazze che proseguono la via della liberazione sessuale, dell’evoluzione be-bop del jazz; i baby boomers degli anni Cinquanta, con il mito di Elvis Presley, il rock-and-roll alla radio e la televisione nelle case. È su queste solide basi che si sono innestati i mutamenti più radicali, quelli dei Swinging Sixties.
Ogni decennio ha la sua identità. Qual è la nostra? Essere eredi di un secolo creativo come il Novecento non è affatto facile. Gli orli delle gonne sono già stati accorciati, l’LSD ha già prodotto “Comfortably numb” e le esperienze di vita più singolari sono già state sperimentate. Sembra che non ci sia più nulla da fare. La scelta doverosa di accogliere la sfida di inventare qualcosa di radicalmente nuovo, lasciandosi alle spalle Grease e Woodstock, non esaurisce le difficoltà particolari che la nostra generazione si trova a fronteggiare nel suo percorso di autodefinizione, di individuazione del proprio patrimonio genetico specifico.
A complicare questo processo sono soprattutto le due tendenze generali del nostro mondo, ovvero il relativismo e il multiculturalismo. Il primo fenomeno comporta l’assunto che non è più possibile accettare come assoluti modelli di pensiero, sistemi di valori o principi etici. Tutto deve essere contestualizzato. Il che è il grande vantaggio della nostra generazione rispetto a quelle che ci hanno preceduto: i nostri genitori non si scandalizzano alla proposta di stili di vita alternativi, i padri non inorridiscono di fronte ai capelli lunghi dei figli, come poteva fare il padre di un hippie, né le madri si stupiscono quanto le borghesi degli anni Venti nello scoprire le abitudini sessuali delle figlie. Il terreno su cui aspiriamo a far germogliare il cambiamento e la presa di distanza dal preesistente è più fertile.
Il secondo fenomeno consiste nella considerazione di come si siano accorciate le distanze tra le culture e sia aumentata, di contro, la loro interazione. Si tratta di circostanze chiaramente favorevoli alla nascita di una cosiddetta “cultura giovanile”, alimentata come potrebbe essere dai più numerosi e disparati stimoli. Fino alla metà del secolo scorso le culture giovanili essenzialmente appartenevano alle tradizioni europea e americana, mentre negli anni Sessanta si assistette ad una prima apertura ai Paesi non occidentali (basti pensare che il tour dei Beatles del 1966 toccò il Giappone e le Filippine). Oggi immaginare una cultura giovanile mondiale significa fare riferimento all’intero Pianeta.
Relativismo e multiculturalismo sono, dunque, le nostre facilitazioni sembrano poter facilitare la ricerca di un’identità comune. Spostando il proprio punto di vista sulle due tendenze, tuttavia, ci si rende conto delle difficoltà che esse implicano. Se diventa possibile accettare qualunque scelta etica individuale, crolla il presupposto perché si crei una controcultura: come si può avversare chi, se non condivide, quantomeno riconosce la dignità del nostro punto di vista? Inoltre una nuova cultura giovanile nella molteplicità cessa inevitabilmente di essere “di massa”: quale può essere l’inno comune ad uno studente di Parigi, un ragazzo kenyano e un giovane abitante dei sobborghi di Bombay?
Possiamo concludere che la specificità della nostra generazione non si risolve nel contrasto con chi ci ha preceduto. Negli anni Ruggenti così si esprimeva la “maschietta” protagonista di un racconto di Fitzgerald, intitolato “Berenice si taglia i capelli”: “Oh, per favore non citare Piccole donne! È superato”; nel 1965 gli Who nel loro singolo “My generation” cantavano “I hope I die before I get old” e proseguivano: “Why don’t you all fade away/ and don’t you try to dig what we all say?”; un figlio dei fiori che nel 1969 ascoltava Jimi Hendrix sfigurare il tema dell’inno americano non riteneva probabilmente concepibile che i suoi genitori avessero potuto scatenarsi sulle note del be-bop o i fratelli maggiori avessero potuto appassionarsi al ritmo del rock-and-roll.
Noi non prendiamo le distanze da “Piccole donne”, non ci auguriamo di morire prima di invecchiare, non ci stupiamo dell’importanza che generi come il be-bop e il rock-and-roll hanno avuto nell’evoluzione musicale. Al contrario, leggiamo le vicende delle sorelle March come un classico delle letteratura, ci appassioniamo alla musica degli Who, pur senza sentirci incompresi (in virtù del relativismo di cui sopra), e restiamo affascinati tanto dai “three days of peace, love and music” quanto dai locali jazz anni Quaranta o dai jukebox dei fast-food in stile Happy Days. Andiamo ai concerti di Bob Dylan, compriamo gli occhiali da sole a goccia e indossiamo le minigonne di Mary Quant. Non voltiamo le spalle al passato: lo osserviamo, ne siamo attratti, a volte lo imitiamo.
Naturalmente non sono soltanto i fenomeni di costume, gli stili di vita, i generi musicali o le opere letterarie a caratterizzare un determinato periodo storico e a sancirne la differenza rispetto agli altri: più importante è capire fino a che punto il modo di pensare, lo “sguardo sul mondo” si distingue dai precedenti. Non si può dire che la nostra mentalità sia molto diversa da quella dei nostri genitori né che ci sentiamo distanti da loro per motivi ideologici: la percezione più diffusa è, piuttosto, quella del risentimento verso una generazione che ha goduto di un benessere non pianificato con progetti economici a lungo termine e, quindi, deleterio per i suoi stessi figli. Il secolo delle garanzie e delle ideologie è finito, dunque. Ora , tacciamo gli adulti, la classe dirigente, non più di conservatorismo o incapacità di capire che “the times they are a-changin'”, ma di leggerezza e imprudenza.
Definirsi solo “in negativo”, solo in base a ciò che ci manca, sarebbe riduttivo. Allargando le prospettive, ci rendiamo conto che i nati negli anni Novanta si caratterizzano “in positivo” per il fatto di essere i principali protagonisti della rivoluzione informatica. Certo, il copione l’hanno scritto altri: non abbiamo scelto di nascere nell’era di Internet; l’Iphone e Toy Story sono un lascito di chi ci ha preceduto. Ma è pur sempre una buona base per inventare qualcosa di nuovo, no?
Benedetta Montanini, II A